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Rivista99_Funi a Bergamo

Quando si riaccendono attenzioni attorno ad un artista la cosa non è mai casuale, e non è nemmeno sempre legata all’evoluzione del gusto se si tratta di un autore del passato; c’è quasi sempre qualcosa che sta in fatti reali, banalmente concreti a volte, ma che fungono da scintilla. Mi sono più volte chiesto cosa ha smosso l’attenzione, in questi ultimi anni, per Achille Funi e non basta sottolineare il generale interesse per il Novecento italiano, c’è dell’altro, e mi piace pensare che quest’altro, che fa la differenza, sia la sua costante attenzione per il ruolo pubblico della pittura e del pittore.
Un aspetto questo oggi negletto nei contemporanei ma che attrae, e richiama interesse su quest’artista che non si è mai accontentato semplicemente d’esserlo, ma di rivestire di un dovere il suo talento. Come? Non certo in termini declamatori (come altri suoi contemporanei) strumentalizzando il prodotto pittorico, quanto semmai accentuando la missione pubblica del fare il pittore, nel suo caso insegnando, cioè seminando oltre se stesso.
In proposito è giunto alla meta anche un volume (edito da Grafica & Arte, 2019) che indaga sui suoi sette anni all’Accademia Carrara: 1946-1953. Si completa così, in un certo senso, la ricca bibliografia sul valore della docenza di Funi, ma che aveva fino ad ora come riferimento quasi esclusivo Brera e l’ambiente milanese. Poi, in gran parte, erano aspetti, questi, trattati entro cataloghi di mostre. Nel caso in oggetto invece l’opera è frutto di una ricerca a sé stante sul tema, condotta analiticamente sui documenti e pensata per una autonoma pubblicazione, quindi più che presentare opinioni espone fatti. [...]