Ritraggo il paesaggio per la sua bellezza o per l’assenza di tracce umane? Ho bisogno di elevarmi o si tratta semplicemente di non cadere?
Più mi fa soffrire l’umanità, più mi delizio della natura e quanto più trascrivo l’invisibile in un linguaggio comune – io, traduttore dell’ignoto –, più in tutto ciò che è umano posso vedere il bagliore dell’infinito.
(Marco Noris in un inverno spazzato da una tramontana estiva)
[...] Marco Noris ha lavorato sulle frontiere e sui rifugiati, su assenze e presenze, sugli scomparsi e sugli spazi vuoti nel paesaggio; sul cammino, nel cammino e nel luogo di mezzo, in cui tutto resta sospeso tra il possibile trionfo e la sicura sconfitta. Senza essere pago dei risultati ottenuti, indipendentemente dall’efficacia che hanno nell’evocare e alla qualità del lavoro manuale, pittorico e documentario, Noris inizia ogni processo con una domanda che è scaturita da quello precedente. Senza rimanere irretito nello stile o nei formati, avanza attraverso le pratiche dell’arte, invitando chiunque lo guardi a lasciarsi attraversare da immagini che pongono domande di poetica e politica. Senza intimidirci. Sebbene si possa pensare che ci porti in luoghi senza possibilità di manovra, Marco Noris lavora sempre aprendo un interstizio attraverso il quale si infiltra la condizione di possibilità che ciò che è già accaduto possa emergere, o che qualcosa, accadendo, illumini l’orizzonte. In modo che da questa crepa emergano gli istanti più fragili della condizione umana.