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Rivista93_Opere di Carlo Previtali

I vizi
Nel periodo greco-romano, da Aristotele fino a Cicerone e a Seneca, si è molto riflettuto sui vizi. La cristianità li ha accettati e analizzati sin dal IV secolo ad opera dei primi monaci, tra cui Giovanni Cassiano e il suo maestro Evagrio. I vizi “capitali”, così chiamati per primo da Gregorio Magno perché, quasi come dei “capo-fila”, associano a grappolo attitudini non virtuose, furono poi indagati dalla teologia medievale e soprattutto da Tommaso d’Aquino, che li inserì nel catechismo preparato per l’arcivescovo di Palermo. Dal grande teologo dipende Dante che se ne serve per ordinare i suoi gironi di anime purganti. I vizi sono: la superbia, l’avarizia, l’invidia, l’ira, la lussuria, la gola o golosità, l’accidia. Sono sette, numero fascinoso e simbolico, di tradizione patristica e medievale, per indicare la pienezza di una vita ripiegata sul male.

Le virtù
La virtù è «Disposizione naturale a fuggire il male e fare il bene, perseguito questo come fine a se stesso, fuori da ogni considerazione di premio o castigo; nella teologia cattolica, abito operativo per cui si vive rettamente» (Dizionario on-line, Treccani). Nella Bibbia si parla delle quattro “virtù cardinali” che già Platone commentava nel suo dialogo La Repubblica (IV, 427e-433e). Leggiamo nel libro della Sapienza: «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Ella infatti insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini durante la vita» (8, 7). Sarà poi Ambrogio, nel suo Commento al Vangelo di Luca (V, 62), a definire la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia come le virtù “cardinali”, cioè “cardine” e fondamento dell’esistenza. La tradizione cristiana ha associato a queste quattro, altre tre virtù, chiamate “teologali” perché hanno Dio per oggetto formale. [...]