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Trento Longaretti di Antonia Abbattista Finocchiaro

Forse troppo ci siamo appassionati ai camminanti, agli anziani malinconici, ai teneri bambini, alle donne silenti e pensose. I contenuti sociali, i risvolti psicologici, le immagini di cose e persone ci hanno sopraffatto. Il suo mondo, codificato poco a poco nel tempo con violini e pianole, falci di luna e tendoni da circo, carrettini e tristezza, paesaggi e solitudine, ci ha conquistato e, come spesso accade, ha indirizzato univocamente la nostra lettura delle sue opere. Di fronte alle sue tele ci aspettiamo quelle atmosfere, vogliamo nuovamente incontrare quelle persone, cerchiamo le rotelle degli organetti, i profili di orizzonti lontani, le grandi ruote dei carri in viaggio, i dettagli di una vita simbolicamente rappresentata, ormai quasi familiare.
Ma rivedere i parametri di approccio all’opera d’arte non è solo lecito: è doveroso. Forse esiste un altro Longaretti che – come spesso accade – è sempre stato lì, davanti agli occhi di tutti, ed ha perseverato nel suo celarsi per lasciare ancora un livello di lettura e di indagine. A cent’anni d’età. Egli si è proposto fin dagli esordi con un’identità precisa e originale, costruita su una speciale attenzione all’umanità più desolata e periferica. Negli anni Trenta-Quaranta, quelli degli esordi, la sua produzione assumeva toni inconfutabilmente esistenzialistici. Singoli personaggi – bambini solitari, donne composte, uomini sperduti – occupano le tele, spesso prive di contesto, a rappresentare un’inquietudine interiore che sfiora il dramma. I toni emozionali non sono ammorbiditi da quella specie di dolce nostalgia, di malinconica rassegnazione che nei decenni successivi diventeranno dominanti: ora si assiste annichiliti al divilupparsi di una vita infelice e dura. [...]