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Trento Longaretti di Giuliano Zanchi

In diverse recenti occasioni ho personalmente sentito Trento Longaretti confessare, in lucidi monologhi che anche alla presenza di un pubblico mi sono sempre sembrati solitari gesti introspettivi, un sincero imbarazzo per quella sorta di «doppio sé» che, nell’arco di un tragitto che si avvia a raggiungere i confini di «un’età esorbitante», ha conteso lo spazio della sua unità artistica. Uno dei due è il Longaretti che ha dipinto per sé, in modo libero, secondo la propria intima ispirazione, seguendo la rotta della sua placida navigazione formale. L’altro Longaretti è quello condizionato dalle esigenze di una committenza pubblica, in specie religiosa, disposto a intrecciare la purezza di una personale cifra creativa con i vincoli di un messaggio specifico, indulgendo perciò all’adattamento illustrativo. Il primo sembra ora guardare al secondo con un certo senso, se non di rimprovero, per lo meno di rammarico. Ma anche ai gesti di autocritica più severi va imposta un’adeguata cornice di comprensione.
Quello della pittura di Longaretti con la dimensione religiosa è un legame originario. Non va di certo confuso con quel generico senso del «sacro» divenuto oggi sciapo e indeterminato contenitore di ogni minima pretesa «pensosità» di estemporanei concettualismi artistici. Può essere compreso solo in riferimento a quel cattolicesimo lombardo e rurale, sempre segretamente giansenista e accolto senza troppi grilli intellettuali, in cui la qualità dello spirituale ha profondamente a che fare con la dimessa dignità dell’umano. [...]