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Trento Longaretti di Stefania Burnelli

«Mi ritengo un operaio della pittura che sa fare un po’ di tutto, da lavori di fantasia a cose descrittive. Voi mi chiamate professore, maestro... ma io penso di essere stato uno che ha fatto il suo mestiere e il suo dovere». Si racconta così Trento Longaretti commentando il proprio pluridecennale impegno per la committenza di cui la città e il territorio serbano diffusa traccia e memoria.
«Ho cercato di fare il pittore come lo si era una volta: uno che dipinge con la passione al quadro e al dipinto fatto per sé e per chi comprende l’arte, e anche uno che esegue quello che gli è richiesto: c’è da fare un mosaico, una vetrata istoriata, un affresco direttamente a parete, ci vuole l’artista... In questi ottant’anni di lavoro ho sporcato tanti muri, passando dal pennellino obbediente, grazioso, alla pennellessa, perché dipingere un cielo di 100 metri col pennellino non si può fare. Ero considerato quasi un artigiano che fa ciò che gli è commissionato, e anche, naturalmente, un pittore che segue le sue fantasie per l’arte in senso puro». Del suo lavoro “pubblico”, ossia per le chiese, i monasteri, i conventi, le banche, le scuole, tiene a precisare: «Ho cercato di farlo nel modo migliore, all’antica. Partendo dal bozzetto o progetto su tema richiesto, ai disegni grandi al vero, i cosiddetti cartoni dove il pittore deve disegnare l’opera a carboncino come fosse il lavoro finito. Poi quello che era il cartone si trasporta su muro o a vetrata: questa è la parte più impegnativa. Il resto, il colore, i passaggi di tono, le sfumature, viene fatto con più piacere. Sono incarichi che a volte si svolgono più per passione che per compenso». In queste parole c’è la sintesi del percorso d’arte e di vita di una personalità che è doppiamente testimone del proprio tempo: un pittore [...] e un artista [...].