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Trento Longaretti di Francesco Coter

All’artista ritrovato dopo averlo perduto dedico pensieri e ricordi e li metto per iscritto in modo preciso e conciso, consapevole di quanto il superfluo sia nemico del necessario. «Il primo passo della saggezza è quello di mettere sotto accusa tutto, l’ultimo quello di trovare un accordo con tutto», queste poche parole scaturite dalla mente illuminata di Lichtenberg aderiscono perfettamente al rapporto col mio maestro di pochi mesi: Trento Longaretti. La penna con cui vergo il suo nome scorre tra rimorsi e rimpianti.
Le ricordanze stilizzano i contorni del passato e li colorano di un presente che mi riconduce nello studio di mio padre scultore, là dove avvenne il primo incontro con l’arte di Longaretti. L’etereo pallore di un ritratto femminile, superbamente dipinto in giovane età dal promettente artista, dopo aver catturato l’apprezzamento di mio padre che lo possedeva – possedere non è certamente la parola giusta – partecipò a farmi vivere con sete giovanile tutta la suggestione della pittura.
Nel 1953 all’insegnante trevigliese venne affidata, per concorso, la carica di professore-direttore della Scuola di Belle Arti nell’Accademia Carrara di Bergamo, incarico che onorò giorno dopo giorno, anno dopo anno fino al 1978.
L’aura emanata dalla “Carrara”, diretta a quel tempo da un artista della statura del Novecento, influì sulla scelta – caldeggiata anche dal genitore – di affidare la sorte della mia vocazione artistica alla rinomata istituzione.
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