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Guglielmo Clivati

Incontrare la pittura di Guglielmo Clivati significa incamminarsi verso l’abisso. Per questo motivo essa richiede una devozione quasi religiosa, una predisposizione al sacro. Si ha l’impressione ogni volta di essere segregati, come trasferiti in un mondo di improvvisa instabilità: la tela silenziosa e affranta regala sempre un trauma, mite e stranamente gratificante; tutto è angoscia e conflitto e nel contempo salvezza purificata dal dubbio. Ogni quadro di Clivati una tappa, un purgatorio, una finestra sul mondo dell’io e del non-io. La sua pittura è un luogo di villeggiatura, dove ci si muove a fiato lento attraverso stadi intermedi di convalescenza, una sorta di tormento di Sisifo. Le cose intorno a lui tendono ad assumere sfumature insolite: ombre cupe, risvegli mattutini colorati di rosso, gialli del tardo pomeriggio; senza preavviso ti senti invadere da una strana ondata di gioia mista a panico. Curiose alterazioni della coscienza, o forse dell’incoscienza. Non c’è nulla che sia in completa sintonia con l’io: spasmi e dolori, talora intermittenti, spesso continui, sembrano sia fuori sia dentro presagire un’assenza cupa di eternità, seppur agognata e sperata fino allo stremo. Misteriosamente, per vie lontanissime dalla normale esperienza conscia, il grigio e il brumoso, il nero e l’angusto, assumono quasi per incanto le tonalità della pienezza: un alito di vento leggero offre sollievo alla calura, anche se sullo sfondo non sembrerebbe esserci via di fuga. È talmente ricca di varianti la pittura gaia di Guglielmo Clivati, è così legata al sistema complessivo di stimoli e risposte di ogni singolo individuo, che ciò che è panacea per l’osservatore a potrebbe rivelarsi una trappola per l’osservatore b. [...]