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Allegorie delle verità ultime di Mauro Picenardi

La predilezione della nobiltà e della clientela ecclesiastica di Bergamo per artisti di nascita o di formazione veneta perdura fino alla fine del secolo XVIII e ne è testimonianza l’attività di alcuni pittori che, in controtendenza rispetto al loro tempo, manifestano, con inflessibile coerenza e bravura di mestiere, la fedeltà ad una cultura barocchetta ferma a episodi e protagonisti del primo Settecento veneto, nonostante i mutamenti in direzione di una nuova sensibilità artistica proto neoclassica.
Tra i protagonisti di questo attardato, ma accattivante lessico pittorico è il cremasco Mauro Picenardi (1735-1809) che condivide con il milanese Federico Ferrario (1714-1802), affine per orientamenti ed esiti formali, una simile vicenda biografica e di professione: arrivati da fuori, entrambi si radicano a Bergamo e nel territorio nella seconda metà del secolo, conoscendo un indubbio successo di pubblico grazie ad un’ampia produzione di cicli pittorici e di pale d’altare destinati alla decorazione della rinnovata edilizia sacra locale.
Dopo il meritorio risarcimento critico di Licia Carubelli del 1989, seguito dall’approfondimento della sua vicenda artistica in territorio bergamasco, a cura della stessa studiosa, la conoscenza del Picenardi si è accresciuta di ulteriori contributi che ne hanno consolidato l’idea di artista dalla monocorde ispirazione tardo rococò. Invece i dipinti di cui si discute in questa sede rivelano la statura di un autore più versatile e colto di quanto finora sospettato, in dialogo diretto con altri personaggi della scena pittorica bergamasca del momento, come Vincenzo Bonomini (1757-1839), di una generazione più giovane e dalla fervida vena grottesca e umorale. ...