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Ci si accosta con pudore agli spazi-mondo creati da Milena Bellometti. Si viene come calati sulla scena, gremita di attori, di un teatro, dove spaesati, in preda all'imbarazzo, bisogna improvvisare la propria parte. Sono luoghi organizzati ordinatamente dal corpo fisico di oggetti lavorati con le mani, vestiti di colori spessi, di tessuti, di accenni, che domandano il senso. Sono sequenze uniche di un racconto che narra della domanda, costante, sull'uomo e dell'uomo, pronunciata con la decisione di una donna. Sono percorsi che provano a ricomporre frammenti di significato, quasi in attesa che uno compiuto e unico si sveli, come per ricompensa, intravisto nelle tracce.
Numerose chiese, in questi primi dieci anni di sperimentazioni, hanno intuito e accolto la forza dei segni di Milena. È passato del tempo dalle prime opere, ancora timide: quasi scomposte, precoci custodi di segni, di uno stile alla ricerca di orme proprie, a cui imprimere coerenza, verso e direzione, senza togliere la forza dell'espressione urgente, talvolta anche istintiva.
C'era molto di quel che resta, oggi, in quelle pance di donne e di elfi, rigonfie di frutti: restano ferite ricomposte della tela, ricucita come pelle, gravida di pancia e di mondo; restano le parole gridate degli strappi di giornale o dei vuoti, lasciati, al centro delle pagine appese ai muri; restano corpi, di legni abbattuti e di nidi, ad attendere composte visioni d'interno e d'intorno, anche nell'ultimo lavoro, ancora esposto. Resta molto, davvero molto. ...