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Rivista 109_Italo Chiodi. Per natura

Con disarmante, umile e potente semplicità, quella degli eremiti che hanno nulla e creano tutto, Italo Chiodi nel suo studio allestisce a terra, sul nudo pavimento, piccole opere incorniciate dal Tondo Doni domestico di un telaio da tombolo.
Sono “apparizioni” bianche, sono fiori svestiti di colori, purissimi petali, quintessenziali foglie, stami steli e pistilli, ritratti come un soggetto umano, animati da psiche, che in greco antico era “respiro”. Emersioni inattese di candore da un fondo nero impenetrabile, fantasmi pieni di grazia.
Nel suo Seminario Libro VII, Jacques Lacan mette in relazione l’esperienza del Bello con l’“abbagliamento”. Alle pareti appoggia tavole rettangolari piuttosto pesanti, non vuole aiuto, sa cosa fare e sa come. Sono sempre due, appaiate.
Da un canto un pezzo di corteccia, un ramo, un fiore dilatato in dimensioni senza perdere un millimetro di esattezza, di precisione devota, ossessiva, minutissima, esplorata e restituita allo sguardo come non saremmo mai in grado di vedere.
E questo nitore sorprendente di dettaglio ha il prezzo del sacrificio, del sacrum facere, del disegno come preghiera laica. Si prega in silenzio, si tacciono i rumori e pure i suoni. Così, nel disegno di Chiodi, si fanno tacere i colori. Sulla pura forma l’artista esercita spoliazione. Il colore, non disperso né negato, è separato come un abito dal corpo, e posto accanto in tutta la sua vividezza, intensità vibrante e satura. Il verde fragrante dei prati in primavera, il rosso vespertino e maturo dei frutti ebbri di sole, sono quelli che allagano le forme facendole scomparire ai nostri occhi. [...]